8 marzo 2014

Una pausa di 10.000 anni nella migrazione verso le Americhe

                                                   La penisola della Kamchatcka, in Siberia (© Yann Arthus-Bertrand/Corbis)

Prima di colonizzare il nuovo continente, gli antenati dei nativi americani si fermarono per circa 10.000 anni in Beringia, la striscia di terraferma tra Kamchatka e Alaska emersa durante l'ultima glaciazione. I recenti carotaggi nella regione hanno riportato alla luce fossili di pollini, piante e insetti che indicano che l'ecosistema dell'epoca era favorevole alla vita umana, in accordo con i dati genetici secondo cui il genoma dei nativi americani rimase isolato per alcune migliaia di anni. Manca così solo la conferma dei resti archeologici degli insediamenti, probabilmente sommersi dal mare. Gli antenati dei nativi americani provenivano dall'Asia e colonizzarono le Americhe circa 25.000 anni fa, attraversando un lembo di terraferma che collegava la Kamchatka e l'Alaska. L'ultimo massimo glaciale, cioè il periodo di massima espansione dei ghiacci durante l'ultima glaciazione, determinò infatti l'abbassamento del livello del mare e la formazione di un'ampia regione emersa, detta Beringia. Il passaggio, tutttavia, non fu rapido. Prima di espandersi nel nuovo continente, questi migranti si fermarono in Beringia per circa 10.000 anni, come scrivono su “Science” Dennis O'Rourke dell'Università del Colorado a Boulder e colleghi dell'Università dello Utah e della Royal Holloway University of London, riassumendo le attuali conoscenze su questa delicata fase dell'avventura umana sulla Terra.  Nell'articolo, gli autori fanno notare che i dati paleoecologici ottenuti recentemente sono in accordo con le conclusioni delle analisi genetiche ottenute anni fa. L'ipotesi della lunga permanenza in Beringia sarebbe dunque confermata, malgrado l'assenza di resti archeologici degli insediamenti umani, probabilmente sommersi dal mare.La teoria della lunga permanenza in Beringia degli antenati dei nativi americani non è nuova: fu formulata nel 1997 da due genetisti sudamericani e sviluppata ulteriormente da un gruppo di ricerca dell'università di Tartu, in Estonia, sulla base dell'analisi del DNA mitocondriale, una tipo di DNA che si trasmette per via matrilineare, su più di 600 nativi americani. Le mutazioni riscontrate in questo materiale genetico indicavano infatti che un gruppo di antenati di quegli individui proveniente dalla Siberia rimase probabilmente isolato per alcune migliaia di anni. La teoria fu accolta tiepidamente, soprattutto al di fuori della comunità dei genetisti. A essere perplessi erano soprattutto gli esperti di paleoecologia, poiché i dati disponibili facevano pensare che in Beringia vi fosse un ecosistema poco adatto alla vita dell'uomo.  Nell'ultimo decennio tuttavia il quadro delle prove fossili è molto cambiato. I carotaggi effettuati di recente nel mare di Bering e al largo delle coste dell'Alaska hanno infatti riportato alla luce resti pollini, piante e insetti che dimostrano che la Beringia in quel periodo era caratterizzata da condizioni climatiche miti, in cui un paesaggio di tundra simile a quello attuale era punteggiato da nicchie più floride, in grado di supportare una flora diversa da quella attuale, con una relativa abbondanza di cespugli e di alberi.

                                        Lo stretto di Bering oggi, e la Beringia 20.000 anni fa circa (sopra) (Wikimedia Commons)

I dati genetici sono molto chiari nell'affermare che il genoma dei nativi americani è emerso in una popolazione isolata almeno 25.000 anni fa, "mentre il primo nucleo di migranti non è arrivato nelle Americhe prima di 15.000 anni fa”, ha spiegato O'Rourke. “I dati paleoecologici ora indicano che la Beringia non era un ambiente uniforme, ma poteva ospitare habitat compatibili con il sostentamento degli esseri umani”. Quanto all'assenza di dati archeologici, è possibile che in futuro si effettuino ricerche nelle parti ora sommerse della Beringia e sulle coste dell’Alaska e della Siberia. Per ora, ci si deve accontentare di ritrovamenti che definiscono solo un ampio intervallo temporale entro cui si è svolta la migrazione dei primi colonizzatori delle Americhe. I resti fossili dell’uomo di Mal’ta, ritrovato nei pressi del Lago Baikal, in Siberia, risalgono a 24.000 anni fa: le analisi genetiche del suo DNA hanno confermato che i nativi americani si sono differenziati dalle popolazioni asiatiche molto prima dell'ultimo massimo glaciale. D'altra parte, i più antichi reperti archeologici riferibili a stanziamenti umani nel Nord America risalgono a non più di 15.000 anni fa.

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